Dahomey, by Mati Diop. L'Orso d'Oro punta il dito sulla colonizzazione occidentale

Vincitore a sorpresa della 74ª Berlinale, Dahomey è l’opera seconda di Mati Diop, regista francese di origini senegalesi che nel 2019 si era fatta conoscere a livello internazionale con Atlantique. A sorpresa non in quanto documentario (alla Berlinale non sarebbe la prima volta che vinca con merito l’ambito premio un film non di fiction), ma perché altri erano i nomi che circolavano a poche ore dal verdetto. Ma tant’è, Dahomey, pur non essendo un titolo strepitoso (che poi è quello che è mancato al concorso di quest’anno), è sicuramente interessante e – vivaddio – pone più domande che risposte.

Il film racconta della restituzione al Benin (un tempo regno del Dahomey) di 26 oggetti trafugati durante la colonizzazione e conservati al Musée du quai Branly di Parigi. Si alternano così scene del delicatissimo “trasloco”, la descrizione dei singoli pezzi, nonché il dibattito tra gli studenti che si dividono tra entusiasti e scettici, quelli che pensano sia solo un contentino, l’ennesimo colpo di coda neocolonialista, e quelli che sono ben felici di conoscere la loro storia dell’arte, quella che non è presente neanche nei libri di scuola. Per non parlare, infine, dell’inaugurazione con tanto di celebrità politiche e, infine, del pubblico, che felice indugia nei soliti selfie (comprende davvero cosa sta guardando?). In tutto ciò aleggiano, riuscitissima perla di questo film, le voci simil-Darth Vader che Diop dà alle statue: i loro dubbi, la loro filosofia, nelle mani di un altro regista sarebbero apparse quanto meno ridicole. Diop riesce nel miracolo di renderle uno dei caratteri distintivi (e migliori) della pellicola.