Difficile parlare di El prófugo, in concorso alla Berlinale 2020, senza raccontare troppo. Cominciamo dalle basi: l’opera seconda dell’argentina Natalia Meta (autrice dell’apprezzato Morte a Buenos Aires) non ha nulla a che vedere con il dramma dell’immigrazione. Si parla di intrusi, e nella vita di Inés (Erica Rivas) ce ne sono parecchi, visibili e non.
Il film, tratto dal romanzo Il male minore di Carlos Eduardo Feiling, parte come una commedia. Una commedia alla Almodóvar (forse un omaggio?), a cominciare dalla presenza nel cast di Cecilia Roth e dal lavoro della protagonista: il fatto che sia una doppiatrice – seppure di non ben identificati film asiatici – a dispetto delle atmosfere vagamente thriller richiama più Donne sull’orlo di una crisi di nervi che Berberian Sound Studio. Ora, accade che Inés, che oltre a essere doppiatrice fa anche la corista, vada in vacanza con il fidanzato peggiore di sempre. Questi una notte si suicida dopo un assurdo diverbio di gelosia: da lì in avanti anche il film si fa assurdo. Non pauroso, non surreale (o non abbastanza), ma assurdo.
Si ridacchia qua e là cercando di capire dove finisca la realtà e inizi la fantasia, si apprezza Cecilia Roth nel ruolo dell’insopportabile mamma, quindi si giunge a un finale che spiega (?) in parte quello che si era più o meno già evinto. Sempre in bilico fra i registri, El prófugo appare come una fumosa occasione mancata. E certi temi sono stati descritti in modo decisamente migliore in tanti, forse ormai troppi film. La cosa migliore? La battuta sul doppiaggio di Gandalf.
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